“E solo dopo un momento l’osservatore si rende conto che, alzando lo sguardo verso l’orizzonte, nel vuoto singolare della superficie che si estende davanti ai suoi occhi, manca anche ciò che, nella configurazione di tutti i fiumi, riposa lo sguardo e tranquillizza, completando l’idea, l’archetipo del concetto stesso di fiume: la sponda opposta.”
È il Río de la Plata il protagonista di questo “Trattato immaginario”, un gigantesco corso d’acqua formato dalla confluenza dei fiumi Uruguay e Paraná, la cui superficie è pari a quella dell’Olanda e sulle cui sponde oggi si affacciano due metropoli, Buenos Aires e Montevideo.
Eppure, nel 1516, il Río de la Plata e le terre che lo circondavano erano desolate. Il suo scopritore, Juan Díaz de Solís, colpito dalla vastità e dalla dolcezza delle sue acque lo battezzò “Mar Dulce”. Alle sue spalle si apriva una sterminata pianura che gli indigeni chiamavano pampa, ma che tutti gli altri designarono con una parola molto meno prestigiosa: il deserto.
Juan José Saer dedica al fiume più importante della sua Argentina il racconto – che ricorda Il Mediterraneo di Braudel e Danubio di Magris – della ricerca quasi impossibile dell’identità di quelle terre e delle persone che le abitano.
Ripercorrendo la storia di un fiume, Saer ci narra la storia di una nazione, dalla fondazione di Buenos Aires alla dittatura, attraverso quattro capitoli che seguono il succedersi delle stagioni australi, celebrando così due figure: il Río de la Plata e la letteratura.