Un estratto di “Volti nella folla” di Valeria Luiselli
Pubblichiamo le prime pagine di Volti nella folla di Valeria Luiselli, nella traduzione di Elisa Tramontin
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Il bambino mi sveglia:
«Sai da dove vengono le zanzare, mamma?»
«Da dove?»
«Dalla doccia. Di giorno stanno nella doccia e di notte ci pungono.»
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Tutto è iniziato in un’altra città e in un’altra vita. Non posso scrivere quindi questa storia come vorrei, come se stessi ancora lì e fossi soltanto quell’altra persona. Faccio fatica a parlare di strade e di volti come se li vedessi ancora ogni giorno. Non trovo i tempi verbali adatti. Ero giovane, avevo le gambe forti e magre. (Avrei voluto iniziare come finisce Festa mobile di Hemingway.)
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In quella città vivevo da sola in un appartamento quasi vuoto. Dormivo poco. Mangiavo male e sempre le stesse cose. Vivevo una vita semplice, abitudinaria. Facevo letture e traduzioni per una piccola casa editrice specializzata nel recupero di “perle straniere”. Nessuno le comprava perché erano rivolte a una cultura insulare in cui la traduzione è guardata con sospetto. Ma mi piaceva il mio lavoro e per un periodo credo di averlo fatto bene. Il giovedì e il venerdì facevo ricerche in biblioteca, da lunedì a mercoledì andavo in ufficio. Era un luogo piacevole, accogliente e, per di più, si poteva fumare. Tutti i lunedì arrivavo presto e piena di entusiasmo, con un bicchiere colmo di caffè. Salutavo Minni, la segretaria, e poi il chief editor, che era l’unico editor ma era il chief. Si chiamava White. Mi sedevo alla scrivania, rollavo una sigaretta di tabacco e lavoravo fino a notte fonda.
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In questa casa viviamo in due adulti, una neonata e un bambino medio. Diciamo che è il bambino medio perché sebbene sia il più grande dei due, lui insiste a dire che è ancora medio. E ha ragione. È il più grande, ma è piccolo, quindi è il medio. Qualche giorno fa, scendendo le scale, mio marito ha calpestato uno scheletro di dinosauro ed è successo un cataclisma. Pianti, urla, tremori: il dinosauro non era riparabile. «Adesso il T-Rex è inriparabile» diceva il bambino tra i singhiozzi. A volte ci sentiamo come due Gulliver paranoici che camminano eternamente in punta di piedi per non svegliare nessuno, per non calpestare nulla d’importante e fragile.
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D’inverno imperversavano le bufere di vento. Ma mettevo le minigonne perché ero giovane. Agli amici scrivevo lettere in cui raccontavo delle mie passeggiate, delle mie gambe avvolte da calze grigie; del mio corpo infagottato in un cappotto rosso dalle tasche profonde. Scrivevo lettere sul vento freddo che accarezzava quelle gambe e paragonavo l’aria gelida ai peli ispidi di un mento rasato male, come se l’aria e due gambe grigie che camminano per strada fossero materiale letterario. Quando abbiamo vissuto da soli per tanto tempo, l’unico modo per appurare che continuiamo ad esistere è articolare le attività e le cose con una sintassi facilmente condivisibile: questa faccia, queste ossa che camminano, questa bocca, questa mano che scrive. Ora scrivo di notte, quando i due bambini dormono ed è lecito fumare, bere e far entrare la corrente d’aria. Prima scrivevo sempre, a qualsiasi ora, perché il mio corpo mi apparteneva. Le mie gambe erano lunghe, forti e magre. Era giusto offrirle: a chiunque, alla scrittura.
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In quell’appartamento c’erano soltanto cinque mobili: letto, tavolo da pranzo, libreria, scrivania e sedia. La scrivania, la sedia e la libreria, in realtà, erano venute dopo. Quando mi ero trasferita lì, avevo trovato solo un letto e un tavolino pieghevole di alluminio. C’era anche una vasca incassata. Ma non so se considerarla un mobile. A poco a poco, lo spazio aveva cominciato a riempirsi, anche se erano sempre oggetti di passaggio. Durante il fine settimana i libri della biblioteca formavano una torre accanto al letto e sparivano il lunedì successivo, quando li portavo in casa editrice per schedarli.
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Un romanzo silenzioso, per non svegliare i bambini.
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A volte compravo il vino, anche se la bottiglia non durava neanche una serata. Duravano un po’ di più il pane, la lattuga, i formaggi, il whisky e il caffè, in quest’ordine. E ancora un po’ di più l’olio e la salsa di soia. Ma le penne e gli accendini, per esempio, andavano e venivano come adolescenti cocciuti che s’impuntano a dimostrare la loro incontenibile determinazione e assoluta autonomia. Sapevo che non era molto sensato riporre alcun tipo di fducia negli oggetti e che non appena ci abituiamo alla presenza silenziosa di una cosa, questa si rompe o sparisce. Anche i legami con le persone che mi circondavano erano segnati da questi due modi della temporaneità: rompersi o sparire. L’unica cosa che rimane di quel periodo sono gli echi di alcune conversazioni, una manciata di idee ricorrenti, poesie che mi piacevano e che leggevo e rileggevo fino a impararle a memoria. Tutto il resto è un’elaborazione posteriore. I miei ricordi di quella vita non possono contenere molto di più. Sono impalcature, strutture, case vuote.
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In questa casa tanto grande non ho un posto dove scrivere. Sulla mia scrivania ci sono pannolini, macchinine, Transformers, biberon, sonagli, oggetti che ancora non riesco a decifrare. Cose minuscole occupano tutto lo spazio. Attraverso il salotto e mi siedo sul divano con il computer in grembo. Il bambino entra in salotto:
«Che stai facendo, mamma?»
«Scrivo.»
«Scrivi un libro e basta?»
«Scrivo e basta.»
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Ai romanzi serve ampio respiro. Questo vogliono gli scrittori. Nessuno sa esattamente cosa significhi, ma tutti dicono: ampio respiro. Io ho una neonata e un bambino. Non mi lasciano respirare. Tutto ciò che scrivo è – deve essere – di scarso respiro. Ho poca aria.
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«Anch’io scriverò un libro» mi dice il bambino mentre prepariamo la cena e aspettiamo che il papà torni dall’ufficio. Suo padre non ha un uffcio, ma ha molti appuntamenti di lavoro e a volte dice: “Vado in uffcio”. Il bambino dice che il suo papà lavora al lavoratorio. La neonata non dice nulla, ma un giorno dirà pa-pà. Mio marito è un architetto. Sta progettando la stessa casa da quasi un anno ormai, senza sosta, con modifiche che sono, a mio parere, impercettibili. La casa verrà costruita a breve a Filadelfia, dove mio marito invierà i progetti definitivi. Nel frattempo, si accumulano sulla sua scrivania. A volte li sfoglio, fingendo interesse. Ma non è facile immaginare di che si tratta, è difficile visualizzare in tre dimensioni tutte quelle linee. Anche lui sfoglia le cose che scrivo io.
«Come si intitolerà il tuo libro?» chiedo al bambino.
«Papà torna sempre arrabbiato dal lavoratorio.»
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In questa casa la luce salta. Bisogna cambiare i fusibili molto spesso. Questa è una parola recentemente acquisita nel nostro vocabolario quotidiano. La luce salta e il bambino dice: «Si sono fusolati i fusibili.» Non credo che ci fossero fusibili in quell’appartamento, in quell’altra città. Non ho mai visto il contatore, non è mai saltata la luce, non ho mai cambiato una lampadina. Erano tutti neon: duravano per sempre. Uno studente cinese viveva nella fnestra di fronte. Studiava fno a tardi sotto una luce foca; anch’io leggevo fno a tardi. Alle tre di notte, con precisione orientale, spegneva la luce della stanza. Accendeva la luce del bagno e, quattro minuti dopo, la spegneva di nuovo. Non accendeva mai quella della camera. Faceva i suoi rituali intimi al buio. Mi piaceva fantasticare sul cinese: forse si spogliava per inflarsi sotto le lenzuola, forse si toccava, forse lo faceva sotto le coperte o in piedi vicino al letto; mi chiedevo come fosse la punta del pene di quel cinese; se pensasse a qualcosa o se osservasse me, che fantasticavo su di lui dalla mia cucina. Quando terminava la cerimonia notturna, spegnevo la luce e uscivo di casa.
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