Un estratto di “La donna che scrisse Frankenstein”

Pubblichiamo un estratto da La donna che scrisse Frankenstein di Esther Cross. La traduzione è di Serena Bianchi.

 

Genio e figura

Mi sentivo come se fossi già entrata nella mia tomba, la mia triste, solitaria ma pacifica tomba.

Mary Shelley, Diari, 17 febbraio 1823

Nel Cimitero acattolico di Roma, sulla tomba di Percy B. Shelley, la lapide recita cor cordium, “cuore dei cuori”, anche se lì, in realtà, non c’è alcun cuore. Il cuore del poeta è sepolto con Mary, sua moglie, a centinaia di chilometri di distanza, nella città costiera di Bournemouth, Inghilterra. In una tomba, quindi, c’è un’urna con ceneri incomplete; nell’altra, un cuore di troppo.

E non è l’unico pezzo di famiglia. La tomba di Mary Shelley costituisce una carta muta della sua vita. Oltre al cuore del marito, contiene infatti altre reliquie, parti di persone che le sono state accanto, alcune per troppo poco tempo.

Mary Shelley ebbe quattro figli, e solo uno le sopravvisse. La primogenita morì a Londra, in una culla povera e fredda; un’altra a Venezia, all’età di due anni; il maschio, William, il fratello mezzano, morì anche lui in Italia, “di colera, o febbre tifoide”.

Che fosse un ciuffo di capelli o un fazzolettino, di ognuno di loro Mary Shelley conservò qualcosa che l’aiutasse a sentirne la presenza, anche se questa si manifestava già da sé.

Vedeva i figli morti nel sonno e nell’insonnia. Apparizioni che, allo stesso tempo, la rendevano felice e la spaventavano.

Il cordoglio per la perdita del figlio la trasformò in una persona diversa.

Dopo la morte del mio William, questo mondo mi è sembrato una distesa di sabbie mobili, che sprofondavano sotto i miei piedi.

Lo fece seppellire nel Cimitero acattolico di Roma; anni dopo, però, l’avrebbero informata di un fatto strano. “Non riescono a trovare la tomba del mio William” avrebbe scritto nel suo diario.

E in Italia perse la vita anche il marito, durante un naufragio. Il corpo di Percy B. Shelley, sfigurato dal mare, fu rinvenuto su una spiaggia, e lì Mary lo fece cremare. Poi chiese di traslare le ceneri nello stesso cimitero dove era sepolto William. Lei non partecipò alla cerimonia perché erano faccende da uomini, ma un amico mise in salvo il cuore del marito e glielo consegnò. Lei lo avvolse nella prima pagina di una poesia e da quel momento lo portò sempre con sé. Affrontò la vita intera con quei ricordi fisici al proprio seguito. In ogni viaggio, ogni trasloco, si portava sempre dietro quelle reliquie, quei suoi fantasmi parziali e anatomici; sempre con la famiglia, ristretta e inanimata, sulle spalle.

Quando, all’età di quarantacinque anni, di passaggio in Italia, volle visitare la tomba del figlio, ebbe conferma delle voci che circolavano: era vuota. Mary, una donna dall’aspetto fragile, minuta, molto pallida, vagava per il cimitero chiedendo informazioni, ma invano, perché non riuscì a trovare il sepolcro. Ad altre madri successe lo stesso. Nei cimiteri regnava il caos e ovunque c’erano vedove smarrite, o padri che esigevano spiegazioni dal custode o da qualche responsabile. Nel suo caso, però, si trattava di un vero paradosso, di una macabra ironia: lei era Mary Shelley, l’autrice di un libro che tutti associavano ai ladri di tombe. I cimiteri le appartenevano per diritto di scrittura, erano il suo ambito letterario.

Anni più tardi, un tumore dal cervello si diffuse in tutto il corpo. Costretta a letto dai feroci mal di schiena, perse gradualmente la sensibilità fino a non sentire più nulla, neanche il dolore.

Un giorno, mentre scriveva una lettera, le parole sulla carta iniziarono a dissolversi, le sfuggivano dalle mani. Da quel momento in poi rimase muta, ma non prima di aver espresso la volontà di essere sepolta con i genitori a Londra, nel cimitero di Saint Pancras Old Church.

A volte non è facile esaudire le ultime volontà dei propri cari; le procedure burocratiche si frappongono, i problemi pratici lo impediscono. Venne tumulata a Bournemouth, nel Sud dell’Inghilterra, ma il tempo finì per accontentarla e le bare del padre e della madre in seguito la raggiunsero. Mary Shelley riposa accanto ai suoi genitori, all’unico figlio che le sopravvisse e alla nuora. Con loro e con le reliquie che custodiva, sotto chiave, nel suo scrittorio.

Vennero ritrovati documenti, un quaderno di appunti che aveva scritto insieme al marito, il cuore di lui – avvolto nella prima pagina di Adonaïs – e diverse reliquie dei loro figli.

Così, sotto una sobria lapide di marmo, il corpo della donna che scrisse la storia del mostro fatto di cadaveri presiede una funesta compagnia familiare. Quel sepolcro è una sorta di cimitero in miniatura.

Ai cimiteri, Mary Shelley era stata legata fin dall’infanzia. Aveva vissuto in un’epoca di ladri di tombe, dissezioni e collezioni anatomiche, un’epoca romantica caratterizzata dalla morbosità e dal culto della vita. Ma se è vero che a quei tempi la presenza della morte e delle sue varie declinazioni non era qualcosa di insolito, nella vita di Mary tutto questo era stato portato all’estremo. Giorno dopo giorno aveva respirato quell’atmosfera e ne aveva fatto qualcosa di sorprendente. L’aveva raccontata. E ora giace sepolta con la sua collezione privata.

La tomba di Mary Shelley è molte tombe insieme. Se qualcuno l’aprisse e, con i capelli, le ossa e le ceneri uniti dal sangue ormai invisibile, ricomponesse una figura, non otterrebbe un normale corpo umano, bensì una creatura diversa, una specie di mostro. Ripercorrere il cammino di questo strano corpo è il proposito di queste pagine.

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