Un estratto de “Il tarlo” di Layla Martínez
Pubblichiamo un estratto de Il tarlo di Layla Martínez. La traduzione dallo spagnolo è di Gina Maneri.
1.
Quando ho varcato la soglia, la casa mi è saltata addosso. Succede sempre con questo cumulo di mattoni e sporcizia, piomba su chiunque attraversi la porta e gli strizza le budella fino a togliergli il fiato. Mia madre diceva che questa casa ti fa cadere i denti e ti prosciuga le viscere, ma mia madre se n’è andata molto tempo fa e io non me la ricordo. So che diceva così perché me l’ha raccontato mia nonna, anche se non ce n’era bisogno perché lo so già. Qui ti cadono i denti e i capelli e la carne di dosso e se ti distrai un momento ti ritrovi a strisciare per terra o ti butti sul letto e non ti rialzi più.
Ho posato lo zaino sulla cassapanca e ho aperto la porta del tinello. La nonna non c’era. Non era neppure sotto il tavolo della cucina o nel mobiletto della dispensa. Ho deciso di provare di sopra. Ho aperto i cassetti del comò e le ante dell’armadio, ma non era neppure lì. Brutta vecchiaccia. Allora ho visto la punta di un paio di scarpe che sbucavano da sotto un letto. In qualsiasi altra circostanza non avrei sollevato l’orlo della coperta, perché quelli che vivono sotto il letto è meglio non disturbarli, ma le scarpe di mia nonna sono inconfondibili. La vernice è così lucida che ti ci puoi specchiare dall’altro capo della stanza. Quando ho sollevato la coperta, stava fissando le assi sotto il materasso. Una vicina che un mattino l’aveva vista uscire dalla cassapanca aveva detto ai giornalisti che la vecchia soffriva di demenza, ma che ne sapeva quella stronza pettegola che aveva sempre i capelli bisunti come la friggitrice di un bar per camionisti. La sua non era demenza.
Ho trascinato la vecchia fuori dal suo nascondiglio, l’ho messa a sedere sul letto e poi l’ho presa per le spalle e le ho dato uno scrollone. A volte funziona e a volte no, quella volta non ha funzionato. Quando non funziona è meglio aspettare che le passi. L’ho trascinata in corridoio, ho aperto la porta della soffitta, l’ho spinta dentro e ho chiuso a chiave. In questa casa tutte le porte si possono chiudere da fuori. È una tradizione di famiglia, proprio come le scemenze che fa la gente a Natale. Noi abbiamo molte tradizioni, come rinchiuderci a vicenda da qualche parte, ma non mangiamo mai l’agnello perché gli agnelli non ci hanno fatto niente di male e ci sembra poco educato.
Sono scesa a prendere lo zaino e sono tornata di sopra. A parte le scale che portano in soffitta, al piano di sopra c’è solo una camera che divido con la vecchia. Ho buttato lo zaino sul mio letto, quello piccolo. Prima era stato di mia madre e prima ancora di mia nonna. In questa casa non si ereditano soldi o anelli d’oro o lenzuola ricamate con le iniziali, qui i morti ci lasciano solo i letti e il risentimento. Il cattivo sangue e un posto dove stenderti la notte, solo quello puoi ereditare in questa casa. Neppure i capelli di mia nonna mi sono toccati, alla sua età la vecchia ha ancora certi capelli forti come spago che sono una bellezza quando se li scioglie, e io mi ritrovo quattro peli lisci e rachitici incollati al cranio che due ore dopo averli lavati son già tutti unti.
Il letto mi piace perché la testiera è piena di immaginette di angeli custodi attaccate con lo scotch. Ogni tanto lo scotch si stacca perché è troppo vecchio e rovinato, ma io ne taglio subito un altro pezzetto con i denti e lo cambio. La mia preferita è quella in cui l’angelo veglia su due bambini che rischiano di cadere in un burrone. I bambini stanno giocando su una rupe e sorridono come due scemi neanche fossero nel cortile di casa e non sull’orlo di un precipizio. Sono pure grandicelli, ma quei cretini se ne stanno lì come se niente fosse. Spesso al mattino la guardo appena sveglia per vedere se sono caduti. C’è anche un’immaginetta in cui un bambino piccolo sta per dare fuoco alla casa, una in cui due gemelli cercano di infilare le dita nella presa della corrente e un’altra in cui una bambina sta per amputarsi una falange con un coltello da cucina. Sorridono tutti come beoti con le loro guanciotte paffute e rosee. La vecchia ha messo lì le immaginette quando è nata mia madre perché gli angeli la proteggessero e prima di dormire si inginocchiavano insieme accanto al letto con le mani giunte e recitavano quattro cantucci ha il mio lettino, ogni cantuccio un angiolino. Poi però la vecchia ha visto gli angeli veri e si è resa conto che quelli che avevano disegnato le immaginette non ne avevano mai visto uno in vita loro perché gli angeli non hanno quei riccioli biondi e quei bei faccini. Assomigliano piuttosto a insetti giganti, mantidi religiose. E mia nonna ha smesso di pregare perché nessuno vorrebbe attorno al letto di sua figlia quattro mantidi religiose con centinaia di occhi e tenaglie al posto della bocca. Adesso preghiamo di nuovo perché abbiamo paura che si posino sul tetto e infilino le antenne e le lunghe zampe dal comignolo. A volte sentiamo un rumore in soffitta e saliamo a controllare e vediamo i loro occhi che ci spiano dalle fessure fra le tegole, e allora diciamo un’avemaria per spaventarli.
Ho tirato fuori i vestiti dallo zaino e li ho messi sul letto. Quattro magliette, due leggings, cinque slip, cinque paia di calzini e i vestiti che mi mettevo quando dovevo andare dal giudice: un paio di pantaloni neri e una camicetta a fiori. La camicetta e i pantaloni erano gli stessi che mettevo ai colloqui di lavoro, perché anche in quel caso volevo comunicare che ero innocente e buona e quindi disposta a farmi sfruttare come una schiava. Con il giudice aveva funzionato, con i datori di lavoro no. Io credo che mi leggevano la rabbia in faccia, perché mentre sorridevo stringevo i denti. L’unico lavoro che avevo trovato era stato come baby-sitter del figlio dei Jarabo, che se ne fregavano della camicetta e del cattivo sangue perché la mia famiglia aveva sempre servito la loro e così sarebbe stato sempre, non importava come mi vestivo o quanto rancore nutrivo nei loro confronti.
Adesso la camicetta non serve più a niente perché si è stinta, ma fa lo stesso perché non avrò più colloqui di lavoro e nessuno mi assumerà mai, non dopo quello che è successo. Non avrò più bisogno di stringere i denti per non far uscire la bile ma dice la vecchia che qualcosa dovrò imparare a fare. Lei lo dice perché non vuole avermi tutto il giorno per casa, ma ha ragione perché se resto troppo tempo senza far niente mi viene il sangue marcio e la luna storta. Un lavoro che mi piacerebbe è portare a spasso i cani, ma qui nessuno mi pagherebbe per questo, qui i cani li tengono rinchiusi in un recinto e cara grazia se ogni tanto gli gettano un tozzo di pane duro sopra la rete.
Bene, continuo. Quando ho tirato fuori i vestiti dallo zaino mi sono tolta la maglietta e me ne sono messa una pulita. Mi piacerebbe dirvi che era carina ma non è vero e voglio raccontarvi tutto quanto esattamente com’è successo, e a dir la verità erano brutte tutte e due e slargate e lise, ma almeno la seconda non aveva quella puzza di chiuso degli autobus di merda che ci sono da queste parti, con quell’odore di tuta da ginnastica che ha la tappezzeria. Ho messo i vestiti nell’ultimo cassetto del comò ma sapevo che era una sciocchezza. Il giorno dopo avrei dovuto cercarli nella credenza in cucina o sugli scaffali della dispensa o nella cassapanca all’ingresso. È sempre la stessa storia, in questa casa non puoi fidarti di niente ma soprattutto non puoi fidarti degli armadi e delle pareti. Dei comò un po’ di più, ma nemmeno di quelli.
Ho sentito un rumore sordo e ho capito che la vecchia stava picchiando la testa sulla porta. Probabilmente stava per ritornare, era meglio svegliarla prima che si avvicinasse alla finestra della soffitta, non sarebbe stata la prima volta che cadeva o si buttava di sotto, che in questo caso faceva lo stesso perché dài e dài sarebbe rimasta impedita o idiota. Sono andata ad aprirle la porta. Questa volta l’ho scrollata più forte finché è ritornata del tutto e ha detto oh, bambina, non ti ho sentito entrare. Le ho risposto che ero arrivata da mezz’ora ma che lei era stata via per tutto quel tempo. Quando i santi ti portano via ti portano via, mi ha detto, e l’ho vista uscire dalla stanza e scendere le scale. I gradini hanno scricchiolato come se dovessero rompersi anche se la vecchia non arriva a cinquanta chili. Basta guardarla, è tutta pelle e ossa, pelle cadente senza carne sotto. Quando sono scesa io non hanno fatto rumore. Nemmeno dei gradini ti puoi fidare.
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