Paratesti: Mario Levrero, il Buster Keaton della parola
Per la rubrica paratesti pubblichiamo la prefazione di Luciano Funetta a Lascia fare a me di Mario Levrero.
Gli scrittori sono dei miserabili. Ci sono buoni scrittori e cattivi scrittori, scrittori acclamati e scrittori marginalizzati, scrittori che dopo la morte, come natura vuole, scompaiono e scrittori che rivivono postumi una nuova quanto poco consolante giovinezza: tutti, beati e fieri delle rispettive differenze, hanno in comune un fatale rapporto con la miseria, o meglio con quella forma di miseria che pertiene all’effimero officio della scrittura, all’esito ridicolo del castigo di Sisifo.
Nel corso del Ventesimo secolo ci sono stati Paesi che hanno prodotto quantità notevoli di miserabili (così come altri si sono preoccupati di sfornare, in alternativa, assassini, martiri o atleti olimpici).
Tra tutte queste provincie della miseria, l’Uruguay merita una menzione speciale. Esistono pochissime nazioni che possono vantare un numero tanto ragguardevole di grandi scrittori per chilometro quadrato. Con i suoi Quiroga, Onetti, Galeano, Hernández, Courtoisie, Benedetti, Polleri, Somers e chi più ne ha più ne metta, questo insospettabile buco dell’America Latina concorre a pieno titolo per la medaglia d’oro della miseria, la corona d’alloro dell’inquietudine, la coppa di cartapesta della letteratura.
Tra i nomi che compongono la formidabile squadra di solisti del Miserabile Fútbol Club uruguaiano, svetta, luminoso come il suo ultimo romanzo, quello di Mario Levrero, nato a Montevideo nel 1940 e morto, come un vampiro troppo pigro per andarsi a cercare una bara, alle prime luci dell’alba del nuovo millennio. Della sua opera inusuale i lettori italiani hanno già potuto gustare Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo e, per l’appunto, Il romanzo luminoso, pubblicati entrambi da Calabuig e tradotti rispettivamente da Sara Cavarero e Maria Nicola, due libri che tradiscono l’anima anarchica di Levrero, una specie di Raymond Chandler in canottiera, alle prese con il divertimento del poliziesco e una minuziosa e straniante battaglia tra l’idea condivisa di realtà e la percezione disperatamente individuale che della realtà lo scrittore ha la disgrazia di sperimentare.
Il fatto che finalmente in Italia si possa leggere una nuova traduzione di Levrero è una buona notizia, un toccasana per l’umore e una discreta dose di benzina versata su tutte le idee sulla letteratura latinoamericana, preconcette o incomplete, nate in seguito ai periodici boom di interesse a cui siamo, con una certa rassegnazione, ormai abituati ad assistere. Lascia fare a me, testo apparso nel 1998 per la casa editrice spagnola Caballo de Troya, si presenta nella tanto caratteristica quanto inimitabile forma della novelle, dimensione che la letteratura in lingua spagnola, insieme a quella tedesca, ha portato al massimo grado di complessità e di innovazione. Naturalmente il complesso e innovativo Levrero di tutto questo parlare intorno alla storia della forma avrebbe riso. La sua sarebbe stata una risata appartata, dispersa, una risatina fantasma. Il geniale e inclassificabile Levrero avrebbe probabilmente spiegato tutto con l’amore per Kafka e per il romanzo poliziesco. Leggenda verificata vuole che non passasse giorno senza che lo scrittore leggesse uno o più romanzi neri, in particolar modo quelli della popolare collana Rastros, di cui si approvvigionava durante meticolose visite alle librerie dell’usato, in cui vasti assortimenti di quei libri che il mondo editoriale considerava spazzatura erano a disposizione per chiunque avesse la pazienza di frugare. L’amore che Levrero provava per i libros de viejo era tale da sconfinare allegramente nella dipendenza: in un articolo trovato su internet aveva letto che le pagine ingiallite, in particolare quelle di carta scadente, a volte sviluppavano sulla loro superficie un fungo in grado di procurare lievi stati allucinatori. Così, con l’animo predisposto alla stranezza, al piccolo mistero e alla suggestione di una fantascienza minore, quotidiana, Levrero ha modellato la sua vita e la sua letteratura.
Il libro che avete tra le mani, in effetti, si presuppone sia nuovo, a meno che non viviate nel 2033 o giù di lì, e vi sia capitato per caso di pescarlo da una bancarella del futuro (i librai dell’usato del futuro sarebbero un tema perfetto per un romanzo tipicamente levreriano), quindi non vi affaticate ad annusarlo in cerca di una visione. Sappiate però che nelle sue centoventi pagine troverete incastrati alla perfezione tutti gli elementi che fanno di Levrero uno dei migliori. C’è uno scrittore fallito che supplica il suo editore di pubblicargli l’ultimo manoscritto; per tutta risposta l’editore, chiamato amabilmente il Ciccione, gli offre un lavoro che riguarda un misterioso romanzo arrivato sulla sua scrivania, un romanzo spaventosamente buono, il cui autore – va da sé – è introvabile.
Le uniche informazioni in possesso dell’editore sono che lo scrittore fantasma si firma Juan Pérez e che la busta con il manoscritto è stata spedita dall’ufficio postale del remoto villaggio di Penuria, vicino a Miseria, a pochi chilometri da Disgrazia e a un tiro di schioppo dal mucchio di case chiamate Lamento. Il Ciccione chiarisce tutto in fretta: a Penuria non vive nessuno che si chiami Juan Pérez. Lo scrittore fallito dunque si trasforma in detective, un investigatore per le strade di Penuria, e il romanzo finisce di traverso nella parodia di un intrico hard-boiled e allo stesso tempo nella sprezzante rappresentazione del mesto e frustrante desiderio letterario. Non ci sono dubbi su quali saranno le figure in cui il detective-scrittore si imbatterà: una prostituta miracolosa, un reporter di una testata locale, un’insegnante decrepita e spettrale, baristi e commercianti gonfi di diffidenza e così via, tutto contro il fondale squallido e irresistibilmente comico della provincia.
È calzante quello che, in una pagina del Diario della borsa all’inizio del Romanzo luminoso, Levrero annota a proposito di un tango del sestetto De Caro, El monito: “[…] mi metteva in uno stato d’animo sconosciuto fino a quel momento. Oggi riesce ancora a farmi esattamente lo stesso effetto. È una specie di nostalgia estrema per qualcosa di sconosciuto, una nostalgia da mettersi a piangere forte, e insieme, paradossalmente, allegra”. Così si può dire che Lascia fare a me e l’opera intera di Levrero sono magistrali nel raccontare quanto la letteratura e la sua pratica, attiva o passiva che la si intenda, siano attività miserevoli e al contempo nobili, un brancolare nella penombra – perché il buio non fa ridere – dell’ossessione, in quel momento in cui ciò che appare più astratto e quindi meritevole di una forma letteraria figlia di un linguaggio nuovo si sovrappone all’assurdo quotidiano, il luogo in cui tutto ristagna, pigramente infestato da ectoplasmi senza brama persecutoria né segreti tragici.
In pressoché tutte le testimonianze sulla vita di Levrero e sul suo approccio alla scrittura, coloro che gli sono stati vicini e lo hanno conosciuto affermano che l’unico oggetto della letteratura del maestro fosse il proprio io. Anche nelle finzioni più spiccate, come quella che avete tra le mani, è l’occhio cisposo di Levrero a regnare sul panorama, a dettarne i tempi, a scorgerne le contraddizioni. Ogni qual volta il protagonista avverte una puntura di sconforto, di malinconia, di smarrimento, ecco che ognuna di queste sensazioni gli si presentano in forma di incontri o di strani avvenimenti. Nel caso di Lascia fare a me, quindi, si può dire che senza dubbio l’indagine, con i suoi vicoli ciechi e i sospetti (la vera identità di Juan Pérez viene attribuita, di volta in volta, a individui sempre più improbabili), sia, nella sua vera natura, niente altro che il battibecco continuo tra lo scrittore-detective fallito e una voce interiore che lo ridicolizza a ogni pensiero, a ogni passo falso, a ogni microscopica manifestazione della sua miseria. L’esorbitante lezione che Kafka ha consegnato, suo malgrado, al futuro con Un medico di campagna ha trovato in questo uruguaiano impresentabile uno dei suoi discepoli più originali. È lui stesso, in un passaggio di El discurso vacío, uno dei suoi libri più apertamente autobiografici, a sbottare:
«La gente mi dice pure: “Ecco un argomento per uno dei suoi romanzi!”, come se io me ne andassi a caccia di argomenti per romanzi e non a caccia di me stesso. Se scrivo è per ricordare, per risvegliare la mia anima addormentata, ravvivare la mente e scoprire le sue strade segrete; le mie narrazioni sono per la maggior parte pezzi della memoria dell’anima, non invenzioni.»
Levrero vs Levrero, dunque, sul ring fatiscente di un palazzetto dello sport vuoto.
Credo che al nostro avrebbe fatto piacere sentirsi dire che ogni pagina che ha scritto sembra spazzata dal Santa Ana di Chandler, il Vento Rosso. A tutti gli effetti è così. In qualsiasi momento, a causa del vento che fa impazzire la gente, può succedere qualsiasi cosa, ovvero l’animo umano può mostrarsi in tutto lo splendore del suo reiterato, ticchettante, impercettibile delirio. L’intera opera di Levrero è una cartografia della miseria, tracciata con strumenti precisi e senza sottrazioni. Laddove c’è un dettaglio su cui l’occhio ha la possibilità di posarsi per svelare il fantasma di un imprevisto, Levrero si sofferma, a volte persino indugia, con la curiosità e quel masochismo che solo alcuni scrittori riescono ad elevare senza patetismi.
Come afferma uno dei bizzarri personaggi del romanzo, il fatuo Max Jrrrrsh: “Non scoraggiare per cose che succedono; vita continua. Vita uguale a mosca curiosa, svolazza da tutte parti e mette naso in tutto. A volte mosca cade in ragnatela. Questo buono. Natura. Legge. Non buono cadere in propria ragnatela”.
Sembra un monito, un avvertimento che Levrero consegna a se stesso, un consiglio che né lui né i suoi personaggi riusciranno mai a seguire. È bene che anche il lettore lo consideri e lo tenga a mente, ma poi, al momento opportuno, lo dimentichi, se vuole farsi un’idea di cosa è stato per la letteratura Mario Levrero, il re dei miserabili, il Buster Keaton della parola. Al suo cospetto noi cittadini della ridente Penuria, sghignazzando, ci prostriamo.
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