La confortevole immaginazione del potere: su “Grazie per il fuoco” di Mario Benedetti

In occasione dell’anniversario della nascita di Mario Benedetti, pubblichiamo la postfazione di Andrea Bajani al capolavoro dello scrittore uruguaiano, Grazie per il fuoco. Buona lettura!

 

 

 

In un’intervista rilasciata alla Radiotelevisión Española nell’agosto nel 1978, Mario Benedetti disse che la conseguenza diretta della sua prima visita negli Stati Uniti, nel 1959, fu quella di diventare antimperialista. Benedetti era allora un chimico uruguaiano di 39 anni, e quello fu a tutti gli effetti uno svezzamento politico: fu la presa di coscienza dell’essenza del potere americano.

In estrema sintesi: comanda chi impone un’immaginazione.

Una manciata di anni dopo quel viaggio, Benedetti scrisse il romanzo Grazie per il fuoco (pubblicato nel 1965) e mise al centro della scena un personaggio che, traslato nel contesto uruguaiano, fa il paio con Charles Foster Kane, il memorabile magnate americano inventato da Orson Welles nel 1941 in quello che in italiano fu chiamato Quarto potere. Il potere di stabilire la versione ufficiale delle cose; cioè l’immaginazione comandata.
Il suo nome è Edmundo Budiño, “uno degli uomini più influenti della politica nazionale, il nome più potente in diversi ambiti”. È un citizen Kane sudamericano. L’arroganza e la prevaricazione, nel privato, sono il suo unico talento. In pubblico gli piace invece ostentare l’onestà più robusta e mascelluta: “Se ho fatto i soldi è perché penso in grande, perché agisco in grande, perché tra l’altro faccio vedere a questo marcio paese la mia faccia rispettabile e orgogliosa, che è l’unica faccia che gli piace guardare”.
È un uomo molto chiacchierato, specializzato in automitologie personali. Produce autoritratti ripuliti dalle colonne del giornale, ma è un uomo essenzialmente rivoltante: avido di potere, machista, prepotente con i figli Ramón e Hugo, con la moglie, e con Gloria, l’amante condannata a restare per sempre dentro un cono d’ombra, accanto al corpo ingombrante del padrone.
Come chi sa gestire la messa in onda del potere, Edmundo Budiño produce versioni di sé propagandistiche, pensate per essere diffuse: “È instancabile, simpatico quando vuole, consapevole che la sua parola è legge; filantropo al momento giusto, amante del buon vino, viaggiatore con aneddoti; animato e animatore, risata squillante, occhi luminosi”. Non c’è macchia, apparentemente. O meglio, si sa che c’è la macchia: ma portarla, persino bene in vista, senza che gli altri possano indicarla, è il potere che Budiño incarna.

È a distanza di sei anni da quel primo viaggio negli USA che Benedetti scocca la freccia antimperialista, puntandola contro il proprio personaggio.

Edmundo Budiño è l’America, vista dagli occhi di un figlio sudamericano. “Sulla democrazia ci cago sopra, ma mi serve per guadagnare soldi e allora sono Democratico con tutte le maiuscole che ti pare. Questa è la grande affinità, che tu non potrai mai capire, tra gli Stati Uniti e il sottoscritto. Neanche a loro interessa la democrazia, anche a loro interessano gli affari”.
Queste parole sono indirizzate, non a caso, al figlio; a Ramón, per l’esattezza, il più intelligente tra i due e dunque il più condannato a soccombere a suo padre. A sua volta padre di Gustavo, Ramón in fondo non è in grado di smettere di essere figlio per Edmundo. Lo critica, certo: aspramente ma con sottomissione. Gli dà del Lei, come un sottoposto fa con il proprio principale. Sa che ha un debito, e che quel debito non sono tanto i soldi che ha accettato per avviare l’agenzia di viaggi. Il debito non è quantitativo, perché se così fosse basterebbe estinguerlo; è qualitativo, è l’averli accettati. “Gli ho dato i soldi perché aprisse un’agenzia di viaggi – si lamenta Edmundo – con la segreta speranza che mi dicesse di no. Ma ha accettato, ti rendi conto? Invece di dirmi: Vecchio, si metta i soldi nel culo, io comincio dal basso, con quello che posso e che sono, nient’altro”.

Ogni figlio nasce dentro l’immaginazione dei propri genitori, e Ramón è, su questo fronte, un figlio come tanti. È immaginazione ancora prima di venire al mondo. Il mondo che un figlio trova pronto è immaginazione messa a punto da un padre e da una madre, ed è lì che per anni dovrà abitare. Poi si affaccerà la consapevolezza che il mondo che ha è soltanto la versione parentale, e la partita sarà scegliere la propria. È lì che Ramón, già ultraquarantenne, si trova: vuole imporre una versione personale.

“Il paese è qualcosa di più dell’utilizzo millimetrico delle bobine di carta di giornale […] Il paese è anche ospedali senza letti, scuole che crollano, ladruncoli di sette anni, facce da fame. […] Il paese è anche gente commossa, mani aperte, uomini con il senso della terra, individui con tanto coraggio da raccogliere la nostra immondizia […] L’altro, quello che al Vecchio sta spaventosamente stretto, è solo un simulacro”.
Dimostrare di essere diverso dal padre, è quello che Ramón vorrebbe, ed è in fondo quello che desidera anche Edmundo.
“A volte vado lì pronto ad affrontarlo – dice il figlio – preparo perfino il discorso, una specie di dichiarazione della mia indipendenza e, tuttavia, quando arrivo davanti a lui, mi mancano le parole”. L’immaginazione del padre è troppo grande: lo comprende. Così come in fondo, attraverso i propri editoriali, comprende anche il paese. Entrambi, figlio e paese, ne hanno un bisogno disperato.

Perché quello che ci racconta questo libro, così politico e spietato, così disperatamente amaro, è che l’immaginazione che si fa potere supplisce al vuoto di chi, di tasca propria, non ne sa produrre alcuna, non se la sa giocare con i propri mezzi.

Vivere di immaginazione riflessa è vita surrogata, è un palliativo, è il comfort – e il disagio insieme – di restare figlio anche da padre. Da “papà” che era, Edmundo Budiño, è diventato il “Vecchio”, agli occhi di Ramón. È questo, in fondo, quello che non gli riesce a perdonare.
Più che l’indipendenza, infatti, Ramón sembra voler tornare indietro. È un rivoluzionario spento, perché in realtà non cerca la rivoluzione: “Quando penso che la mia vita è grigia, tediosa e monotona, non mi sfugge che la routine comporta una serie di cose insignificanti, ma gradevoli”. È per questo che rivuole indietro il Padre, per rintanarsi nell’infanzia, che è l’età in cui è socialmente accettato vivere dentro il mondo altrui. Il Vecchio, al contrario, impone che gli si contrapponga un Nuovo, e Ramón non ha l’energia né la voglia – né forse la capacità – per immaginarlo.
Per riavere indietro il padre l’unica soluzione è, evidentemente, quella di fare fuori il Vecchio: “Vorrei solo distaccarmi dall’odio nell’istante in cui premerò il grilletto, non prima. Vorrei che il mio crimine si trasformasse in un atto d’amore. Ammazzare il vecchio perché risorga quel papà che mi ha comprato dieci scatole di soldatini da Oddone”. “Perché non sempre mi guarda con gli occhi del Vecchio; qualche volta mi guarda con gli occhi del papà. Non sono ancora definitivamente morti gli occhi di papà”.
È proprio questo desiderio, di cui Ramón si riempie giorno dopo giorno, a trasformare il parricidio in una forma di suicidio.

Essere figlio a ogni costo, voler tornare feto, è il modo in cui Ramón Budiño si condanna a morte. È il modo in cui si condanna, si soffoca sul nascere, ogni rivoluzione; è il modo in cui ogni suddito sceglie, per mancanza di mezzi o per paura, di vivere dentro l’immaginazione del potere.

È così, sembra dire Mario Benedetti in questo che è forse il suo libro più tragico e sincero, che gli Stati Uniti restano un Impero. Scriverlo, al ritorno dal suo primo viaggio americano, fu l’espressione del suo antimperialismo e di una sconfitta.

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Grazie per il fuoco è in libreria nella traduzione di Elisa Tramontin. L’illustrazione in copertina è di Irene Rinaldi

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