La parola alla traduttrice: Tradurre un “freak”

Diamo la parola a Serena Bianchi, che ci racconta come è stato tradurre La donna che scrisse Frankenstein di Esther Cross, tra tortuose ricerche bibliografiche, indagini degne di un Poirot, pagine ingiallite di lettere e diari e una lunga immersione nella Londra previttoriana, sulle tracce di un capolavoro.

Tra le varie cose che della traduzione ignoravo prima che diventasse il mio mestiere, c’è tutta la parte di ricerca che ogni testo, seppur in misura diversa, impone. Forse potevo immaginare che fosse così per la saggistica, ma per la narrativa davo per scontato che ci si limitasse ai dizionari o poco più.

Per tradurre La donna che scrisse Frankenstein ho consultato più di cento libri ed è stato bellissimo.

Va detto che non si tratta di un romanzo né di un saggio, è qualcosa di più. È il frutto di un lavoro lungo, minuzioso e ispirato, questo mi è stato chiaro fin dal principio. È il risultato di anni di ricerca, di studi e di viaggi. Poco importava che Esther Cross non avesse appuntato le innumerevoli fonti a cui aveva attinto. Complicava le ricerche bibliografiche, certo, ma era del tutto comprensibile, e quelle ricerche sarebbero state ancora più avvincenti proprio perché il percorso si faceva più tortuoso. Nella maggior parte dei casi si trattava di tradurre i brani e le citazioni dallo spagnolo all’inglese e da lì partire, chiamando in soccorso colleghi generosi, bibliotecari quasi sempre illuminati e archivi digitali che per fortuna oggi esistono. E dopo giorni e giorni l’inebriante soddisfazione di aver chiuso il caso: un vero peccato non avere i baffi di Poirot per lisciarmeli tronfia.
In quelle letture laterali mi sono persa, solo il calendario e una data di consegna da rispettare riuscivano a riportarmi alla realtà.
Testi meravigliosi, talvolta introvabili. Wordsworth, Coleridge, Stevenson, Woolf, Shakespeare, Céline, Byron, Polidori. Oltre, ovviamente, ai parenti stretti della protagonista: la rivoluzionaria madre Mary Wollstonecraft, l’avanguardista padre William Godwin, l’inquieta sorellastra Fanny Burney, il grande amore Percy Shelley.
Autori per lo più già pubblicati in Italia e a volte in traduzioni così belle da impallidire, perché spesso i brani che mi servivano in quelle traduzioni non c’erano e allora toccava a me tradurli, cercando di avvicinarmi, per quanto possibile, al livello degli illustri colleghi che mi avevano preceduto.
E poi c’era lei, Mary. La Mary pubblica e la Mary privata. Ah le lettere e i diari! Non credevo di essere così sensibile, ma trovarmi di fronte alle immagini delle pagine manoscritte mi ha commosso.
Ma al liceo, l’avevamo fatta? Non mi pare. Come si fa a non raccontare a classi di adolescenti la storia di una loro coetanea che secoli prima aveva sfidato ogni regola sociale per difendere la propria libertà? Una “ragazzaccia” che per amore si era ribellata a un padre anarchico, il più anarchico di tutti, ma che nei fatti così anarchico non era. Una che si diceva fosse stata coinvolta per anni in un triangolo amoroso con la sorellastra. Era o no la più rock and roll di tutte?
Aveva viaggiato per l’Europa in lungo e largo e durante una serata a base di laudano e racconti dell’orrore, in piena estasi creativa, con Frankenstein, o il moderno prometeo aveva dato vita non a una storia, ma a un genere letterario. Rileggere il suo capolavoro è stato illuminante. Perché mai non ce l’avevano fatto fare al liceo? E perché per la vacanza studio avevo scelto Hastings e non Bournemouth?
Il contesto necessario a rendere un buon servizio a Esther Cross e al suo libro era così affascinante che mi sentivo in colpa per non averlo conosciuto prima con la profondità che meritava.
Suicidi, sangue, crisi esistenziali e sostanze psicoattive: non mancava neanche il grunge.
Se è vero che a volte le soluzioni traduttive migliori spuntano fuori per caso, in fila al supermercato o sentendo mio figlio parlare con i suoi amichetti, stavolta no, non era nel quotidiano che le avrei trovate. Dovevo proiettarmi nella Londra previttoriana, leggere il Newgate Calendar, prendere parte agli skimmington contro i chirurghi e assistere agli esperimenti di Galvani, pensando con una punta di orgoglio che in fondo noi italiani sappiamo essere migliori di quello che sembra guardando i talk show.
Ho pensato al femminismo, a Michela Murgia e a come avrebbe saputo raccontare lei la storia di una morgana così.

Ma io sono una traduttrice, il mio compito è essere invisibile. Non devo inventare, devo solo, per citare Delfina Vezzoli, “diligentemente tradurre, china sotto il peso di pensieri altrui”. Ascoltare, in questo caso non una, ma tante voci, perché i narratori che si alternano in La donna che scrisse Frankenstein non sono semplici protagonisti di un romanzo, sono persone che hanno vissuto e di quel vissuto hanno scritto. E lo hanno fatto da intellettuali e da scrittori enormi.

In questo, La donna che scrisse Frankenstein riflette perfettamente l’oggetto del suo racconto: come nel romanzo di Mary Shelley siamo di fronte a una creatura che è composta da tante parti e che a dispetto di quel che si possa pensare è viva, vivissima.

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