Se mi piace Dante è perché parla di me. Intervista a Juan José Saer

Pubblichiamo un’intervista a Juan José Saer, uscita in occasione della prima edizione italiana de Il testimone.

Chiunque abbia letto la sua introduzione all’antologia Juan José Saer por Juan José Saer non ha alcun bisogno di porle domande. Ma per il lettore italiano, che con questo libro scopre la sua opera, è certo importante che sia proprio la sua voce a guidarlo nel contesto artistico e culturale di Buenos Aires in cui lei si è formato.

Alla fine degli anni Cinquanta, quando cominciai a scrivere i miei primi libri di narrativa, la letteratura straniera aveva una grande diffusione in Argentina: Joyce, Mann, Kafka, Faulkner, Pavese, Svevo, Proust circolavano continuamente nel nostro spazio letterario. L’opera di Borges cominciava a essere riconosciuta, dentro e fuori il Paese, come anche quella di Pablo Neruda o di Cesar Vallejo. Tra i poeti di altre lingue, Eliot, Pound, Ungaretti, Pessoa, Drummond de Andrade e i surrealisti ebbero un’influenza considerevole sugli scrittori della mia generazione. A causa della censura franchista l’attività editoriale dalla Spagna si era spostata in Argentina e in Messico. Furono questi due Paesi a diffondere in lingua spagnola la letteratura mondiale. Verso il 1958 potevo comprare, nella mia città di provincia e sul banco delle occasioni, l’Ulisse di Joyce, Il castello di Kafka, Alla ricerca del tempo perduto, volumi sciolti dell’opera completa di Freud, tutto pubblicato in Argentina, o la prima traduzione mondiale di Essere e tempo di Heidegger, pubblicata in Messico. Avevo vent’anni e sapevo a memoria interi paragrafi di Luce d’agosto, di Gita al faro di Virginia Woolf o de La montagna incantata. Nel 1960 leggevamo assiduamente Il mestiere di vivere di Pavese, Dylan Thomas e alcuni poeti e narratori della beat generation. Scoprivamo l’espressionismo astratto, il nouveau roman, la nuova musica, il cinema d’autore. Due o tre anni più tardi avremmo cominciato a leggere Carlo Emilio Gadda, Adorno, Benjamin. (il mio romanzo Cicatrici, scritto nel 1967, riprende deliberatamente alcuni temi dei saggi di Benjamin su Baudelaire.) Questi erano i nostri autori moderni e contemporanei. Ma circolavano molto anche i classici: Omero, Dante, Shakespeare, Cervantes, Swift e Stern, Gogol, Dostoevskij e Tolstoj, Stendhal, Balzac, Flaubert, Melville, Dickens, Henry James. Probabilmente ne sto tralasciando molti, ma se cito tanti nomi è per dare un’idea della diversità delle letture alla portata di un giovane in una piccola città della provincia argentina verso il 1960. Fu un momento unico che durò circa venticinque anni e che raggiunse il suo punto più alto tra il 1955 e il 1965. La mia generazione (più tardi chiamata “generazione del Sessanta” dalla critica) fu quella che beneficiò maggiormente di queste possibilità culturali, a cui vanno aggiunte la rivoluzione sessuale e il trionfo del pensiero anticonformista e antiborghese. Un’atmosfera intellettuale, estetica e morale completamente diversa da quella di oggi.

 

Non a caso lei vive a Parigi. Una condizione di esiliato che non può non aver influito sulla sua opera.

Sono arrivato in Francia un po’ per caso, nel 1968, e solo per sei mesi. Ora sono già venticinque anni che vivo a Parigi! Come si vede, in genere succede sempre il contrario di quello che decidiamo. La resistenza dell’esterno di solito è più forte della nostra volontà, sebbene a volte, in qualche zona oscura, entrambe coincidano senza che ce ne rendiamo conto. Fatta eccezione per una breve incursione che coincise sfortunatamente con il golpe militare del 1974, sono stato undici anni senza tornare in Argentina. Dal 1982, però, ci vado regolarmente. Ormai mi sono rassegnato a vivere tra i due continenti. In certi periodi provo una nostalgia smisurata per la mia regione natale e la parte immatura della mia persona sospira per quel “piccolo mondo antico”. In altri momenti è l’adulto a prevalere e, alla luce del senso critico, il presunto paradiso perduto rivela la sua condizione di problema. In quanto alla Francia, e forse all’Europa in generale, quando in me si assopisce il consumatore che ognuno di noi si porta dentro, ho l’impressione di andare alla deriva, senza riuscire a capire come ci sono arrivato, nella stiva del vascello fantasma.

 

Anche per questo, probabilmente, non ci sono sue opere narrative ambientate in Francia. Anzi, praticamente tutti i suoi racconti si svolgono nel litorale argentino.

Sì, nella regione che si trova tra il limite orientale della pampa e i grandi fiumi Paraná e Uruguay, dal cui incontro si forma l’estuario del Río de la Plata. E, fatta forse eccezione per la costa atlantica del Brasile meridionale, la regione più urbanizzata a sud del Río Grande, come si suol dire, e senza dubbio la più europeizzata. La stragrande maggioranza del flusso immigratorio spagnolo, italiano, francese, arabo, ebraico e così via si è concentrato in questa regione. Da una tale mescolanza di tradizioni diverse è sorta una cultura particolare, un modo di vita proprio, in cui molti sono i contrasti e i paradossi. La componente indigena è attualmente quasi inesistente allo stato puro e gli apporti del meticciato, sebbene siano predominanti negli strati più sfavoriti della società, nella classe media si sono integrati con quelli dell’immigrazione. Le città della costa sorgono tra la pampa addomesticata dall’agricoltura e il paesaggio più primitivo, cangiante, povero e anche violento, dei grandi fiumi che nascono nella zona tropicale e che scendono torrenziali verso il sud. Ma l’obiettivo della mia letteratura non è parlare della regione; preferisco lasciare questo compito al discorso più pertinente dei geografi, dei sociologi e degli storici.

 

Tentiamo allora, proprio partendo da Il testimone, di definire in generale la sua poetica. Anzi, che definizione darebbe, partendo ovviamente dalla duplice esperienza di lettore vorace e di scrittore prolifico, della letteratura stessa?

Per me la letteratura è una sorta di antropologia speculativa, una riflessione sensibile – sono cosciente di questa contraddizione in termini – sulla strana singolarità dell’uomo e del mondo. A mio giudizio la buona letteratura deve parlare dell’uomo in generale per poter raggiungere, paradossalmente, la sfera privata dove vibrano le emozioni della lettura. Se mi piace Dante è perché parla di me, e non per la coerenza della sua teologia (peraltro abbastanza arbitraria). Un buon romanzo è per me più un oggetto che un discorso. Sono la sua coerenza interna, la sua temperatura verbale, l’esattezza del ritmo e delle immagini ciò che trasmette la sensazione di verità che sperimentiamo durante la lettura, e non la rappresentazione di una supposta realtà preesistente rispetto al testo. Nel mio ultimo romanzo, Lo imborrable (1993), una delle linee di costruzione sviluppa proprio questo tema.

 

Al momento di scrivere Il testimone, ha tenuto conto di qualche opera storica che narrasse della prigionia di europei tra gli indios? La coincidenza che vi si riconosce tra le descrizioni minuziose, proprie della sua scrittura, e le relazioni di viaggio dell’epoca non sembra casuale.

Ho scritto Il testimone tra il 1979 e il 1982. Di tutti i miei libri è stato quello più tradotto, forse perché è il più breve e apparentemente il più classico. L’origine di questo racconto, che ha suscitato molti lavori critici (peraltro non sempre pertinenti), è stata il mio desiderio di scrivere una storia il cui personaggio principale non fosse un individuo ma una collettività. Quando ho deciso di descrivere questa tribù immaginaria – che ho chiamato una volta “la tribù delle mie stesse pulsioni” -, il personaggio del narratore non esisteva ancora nel mio progetto, ma è andato a mano a mano acquistando densità fino a occupare un posto centrale nel libro. La sua necessità s’impose dopo la lettura di un testo di storia argentina le cui pagine iniziali narrano l’avventura di un mozzo vissuto dieci anni tra gli indios che avevano mangiato tutti i suoi compagni e poi tornato in Spagna. La storia del mozzo era raccontata velocemente, in poche righe, e decisi di non leggere più niente su di lui per poter lavorare più liberamente.

 

Temeva che Il testimone diventasse un romanzo storico? Non c’è alcun dubbio che adesso non lo sia!

No, io detesto il romanzo storico; mi sembra un genere ridicolo e penso che l’autore che si vanti di scrivere romanzi storici non abbia capito nulla di ciò che è la letteratura. Le cronache storiche di Shakespeare sono buone perché le ha scritte Shakespeare, e non perché sono storiche. E se io volessi conoscere la storia d’Inghilterra, l’ultima cosa che mi verrebbe in mente di leggere sono quelle cronache. Ne Il testimone l’intenzione è metaforica. La scrittura è neutrale rispetto a ogni linguaggio chiuso storicamente nel passato, e anzi introduce spesso deliberatamente anacronismi verbali. Lo stesso accade in certi passaggi del racconto, come quello dell’orgia: per descrivere la scena della sbornia, per esempio, andavo nei bar all’ora dell’aperitivo per osservare i primi effetti dell’alcool sui clienti. Ma nel libro tutto è visto come attraverso una lente d’ingrandimento, esaltato di proposito perché i dettagli acquistino spessore drammatico (nel senso teatrale del termine). La mia intenzione è stata quella di proiettare in immagini smisurate certe pulsioni che brulicano nell’intimo di ogni essere umano, in uno stadio infinitesimale e spesso incosciente. Per la descrizione della vita quotidiana degli indios e per le allusioni al mondo primitivo di questa regione dell’America all’epoca della Conquista, ho letto molti libri al fine di poter creare un’atmosfera verosimile. Cito tra di essi come una curiosità le magnifiche memorie di Hans Staden, che ho letto in italiano in una edizione illustrata, comprata nel 1979 in una libreria d’occasione di Roma, a Via del Corso.

 

Vogliamo allargare il discorso al resto della sua opera? La ripetizione, che ne costituisce un po’ il perno, produce spesso un effetto di diversificazione che, a volte, si capta soltanto attraverso dettagli quasi impercettibili. Come se esistessero dei richiami da un libro all’altro.

I miei quindici libri di narrativa, comprese non poche delle mie poesie e alcuni dei miei saggi, sono stati concepiti per essere letti separatamente, come testi unitari e contemporaneamente come parti di un tutto. Quando si legge uno solo dei miei racconti, esso ha una sua vita propria, ma se se ne leggono due o tre si vanno aggiungendo nuovi significati. Questo procedimento è vecchio come il mondo e si trova, per esempio, già in Omero e nei tragici greci. Se leggiamo solo l’Iliade avremo una visione degli eroi di Troia diversa da quella che potremmo ottenere leggendo anche l’Odissea, l’Aiace o l’Orestea. Anche la visione del tempo e dello spazio è fondamentale nella sua opera; la presenza di uno stesso personaggio in romanzi differenti obbedisce a questa visione? Voglio insistere sul fatto che ognuno dei miei libri è scritto per essere letto separatamente e allo stesso tempo per formare parte di un tutto. Io vedo l’insieme come una specie di mobile a cui posso aggiungere poco per volta nuove componenti che modificano l’insieme, dove il lettore può entrare per una qualsiasi delle sue parti, senza seguire nessun ordine preciso, né gerarchico (dal punto di vista estetico), né tematico, né cronologico. La mia intenzione è che ogni testo possegga una forma perfettamente individualizzata, unica, sia per il tono, che per la struttura, per l’organizzazione spazio-temporale e in certi casi persino per le particolarità tipografiche. La forma è essenziale in un romanzo: dai grandi maestri del XX secolo abbiamo imparato che è a partire dall’organizzazione formale e non dal supposto “messaggio” o contenuto che un romanzo irradia il proprio senso.

 

Vuole darci un esempio di come realizza – o ha realizzato – questa intenzione?

Tre dei miei romanzi, Cicatrici, El limonero real (1974) e Nadie nada nunca (1980), costituiscono una specie di trilogia. Dal punto di vista del contenuto non hanno niente a che vedere gli uni con gli altri, salvo il fatto che tutti si svolgono più o meno negli stessi luoghi – la letteratura non è un repertorio turistico – e che alcuni personaggi appaiono episodicamente in tutti e tre, più che come personaggi veri e propri, come elementi di passaggio destinati a creare un’illusione di referenzialità. Ma ognuno dei tre romanzi possiede una diversa organizzazione spazio-temporale. Cicatrici è costruito sulla base di una concezione circolare del tempo: il romanzo comincia dalla fine. In El limonero real (la parola “real” è usata deliberatamente nel titolo, in un’epoca in cui si stava discutendo la crisi del realismo) l’organizzazione del racconto è costruita a partire dalla nozione di un continuo spazio-temporale. Al contrario, infine, Nadie nada nunca, costituito da piccoli frammenti narrativi che si ripetono con leggere varianti e che si sovrappongono o s’incastrano gli uni con gli altri, parte dalla nozione di uno spazio e di un tempo discontinui. È ovvio che io non aderisco a nessuna teoria particolare sul tempo e che queste concezioni mi servono solo come principio organizzativo del racconto. Ed è ovvio anche che tutti questi concetti sono di natura artigianale. Essi mi aiutano a materializzare il racconto, ma non costituiscono il fine ultimo del mio lavoro. Sebbene sia vero che la narrazione raccoglie le sue forme nei campi del pensiero, la sua materia però è sensibile e l’emozione estetica che la sua lettura produce è l’unica cosa che la giustifichi.

Parigi, settembre 1993

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