Guadalupe Nettel, “Di soppiatto”

Pubblichiamo oggi un racconto inedito di Guadalupe Nettel, Di soppiatto. Questo testo è apparso per la prima volta sul numero 522 de «La Lettura – Il Corriere della sera» del 28 novembre 2021.

 

Sabina venne a sapere dell’esistenza di Constanza grazie a una macchia sul collo di suo marito. Era un’impronta scura, una specie di succhiotto, ma non assomigliava ai segni rotondi che lasciava lei sulle spalle coniugali, come una spruzzata di gocce minuscole. La sorprese scoprire un colore così torbido su quella pelle che pensava di conoscere in tutte le sue sfumature, e lo osservò a lungo, senza dire nulla. La intrigava l’idea di condividere con qualcuno quella tela troppo grande, e si concentrò per cogliere le innovazioni nella forma, nell’intensità del viola, nelle dimensioni appena superiori al formato che lasciava lei. Era chiarissimo che il succhiotto non si trovava lì per sbaglio: il tratto era perfetto e quel colore uniforme testimoniava l’abilità e la precisione della sua autrice, al punto che Sabina immaginò con turbamento l’apprensione dell’amante in agguato, che attende i momenti in cui l’uomo è addormentato, le labbra umide che si posano con circospezione per non essere scoperte, la suzione decisa ma discreta, e infine il piacere nell’assaporare la perfezione dell’opera. Ma quel disegno rivelava solo un interesse da artista? Magari, si disse, quella macchietta aveva uno scopo più preciso, poteva persino trattarsi di un messaggio. Un messaggio? Per chi?, pensava Sabina con più curiosità che gelosia; forse per l’amante stesso, o forse per sua moglie. Era innegabile che fosse un modo astuto di manifestare la propria esistenza, persino di lanciare una sfida. Quindi quel piccolo segno in apparenza incantevole era un indizio di arroganza? No, non era così, le dimensioni erano troppo discrete anche solo per pensarlo. Probabilmente Constanza aveva notato i tre succhiotti rossi che Sabina aveva lasciato sulla spalla sinistra di suo marito un paio di giorni prima, provando il desiderio irresistibile di rispondere per mostrare la propria approvazione, e spiegare che era possibile ottenere altre tonalità. Sabina capì tutto ciò e si emozionò vedendo che qualcuno apprezzava le sue creazioni, e anche che la persona in questione avrebbe potuto aprire nuove strade, persino un nuovo entusiasmo nel continuare a disegnare sul corpo condiviso. A quel punto la difficoltà maggiore consisteva nel trovare una figura altrettanto raffinata, un posto originale, un colore sorprendente. Così Sabina aspettò diversi giorni prima di rispondere al messaggio, e per pareggiare le condizioni, decise anche di succhiare furtivamente la pelle del marito, facendo il possibile perché lui non se ne accorgesse mai.

Il secondo messaggio era meno impersonale, quasi emotivo. conteneva molto di più delle labbra di Constanza, dei suoi gusti, del suo carattere. Non era un cerchio bensì qualcosa di più lungo, qualcosa di simile a un graffio sull’inguine maschile, e i colori sfumavano dal rosso più brillante fino a un rosa carne, chiaro quasi quanto la pelle dell’uomo. Sabina ne fu deliziata e cercò ogni pretesto per accarezzare le gambe addormentate e avere la possibilità di contemplare i messaggi di Constanza. A volte avvertiva il desiderio di svegliarlo e di chiedergli quale fosse il nome della donna che andava a trovare quando diceva di recarsi alla sala biliardo, ma i malintesi sarebbero stati inevitabili. Come spiegargli che trovava l’altra molto simpatica, anzi, affascinante? Come fargli i complimenti per il talento di quella donna, per la sua delicatezza? In più, con il tempo i messaggi si fecero sempre più frequenti, e Sabina venne a sapere cose che non avrebbe mai osato domandare, per esempio che il nome di quella ragazza sapeva di quartieri antichi, di case con i balconi in ferro battuto, di solitudine e di terra bagnata.

Grazie ai succhiotti Sabina poteva beffare il marito, sapeva che se un gemello spariva dal guardaroba era perché Costanza aveva deciso di prenderlo, e accoglieva con entusiasmo gli oggetti di origine sospetta con cui l’uomo tornava a casa. Dopo un po’ capì che i colori scuri significavano affetto e che se c’era un accenno di morso, anche solo la fenditura di un dente, il messaggio portava con sé un’espressione allegra o l’eco di una risata.

I segnali di Sabina erano più studiati, lei cercava sempre di fare in modo che le tracce fossero assolutamente comprensibili, allegre e semplici come le sue passeggiate nel bosco o come i giorni d’estate che trascorreva a bordo piscina. Più che parlare di sé, preferiva guardare i talloni del marito o le ascelle (perché Constanza sceglieva sempre i luoghi più reconditi), che le illustravano com’erano la vita e i guadagni di una violinista, l’odore dei gatti dentro un piccolo appartamento. A volte Sabina scopriva sulla nuca di suo marito succhiotti più indistinti, nei quali affiorava un tono blu di risentimento, con cui la sua amica le raccontava le poche attenzioni dell’amante, la sua mancanza di tempo. Ma lei non rispondeva mai a quei messaggi. Pensava, essendo la moglie, di non dover intervenire in un rapporto non suo, del quale, in teoria, non era a conoscenza. Anche se capiva benissimo, dal colore vago e dalla forma di quelle tracce, la sofferenza di Constanza per gli appuntamenti mancati dell’amante e i suoi scarsi slanci d’amore, si sforzava di non esprimere opinioni in proposito e di trattenere la voglia di difenderla, di rimproverare all’uomo la sua instabilità, la sua crudeltà nei confronti di quella violinista che sembrava amarlo così tanto. In quella ragazza aveva trovato una persona diversa dalla gente del circolo del tennis, capace di comprendere le sue angosce, le paure occulte che a parole non riusciva mai a definire. La spaventava il fatto che i due potessero lasciarsi, facendole perdere, per colpa del marito, quella amicizia così intima. Perciò la domenica pomeriggio gli proponeva a più riprese di fare un salto alla sala biliardo: «Magari trovi qualche amico e ti diverti un po’» ma lui rispondeva quasi sempre che era stanco, che il biliardo lo annoiava, e che preferiva passare del tempo con lei. Così il fine settimana diventava ancora più pesante e a Sabina veniva voglia di disegnare sul suo braccio una screziatura rotonda come una lacrima per dire a Constanza che sapeva, che i succhiotti blu sulla nuca di suo marito non le erano indifferenti. Ma non lo faceva: un sentimento strano, forse il suo orgoglio di moglie, glielo impediva. Preferiva lasciare un messaggio di tristezza immotivata, di nostalgia dei tempi in cui la corrispondenza era intensa e quotidiana, non come ora, visto che l’amante non andava più a trovare Constanza se non una volta al mese, per lasciarle i soldi dell’affitto. In realtà era stupefacente la rapidità con cui il marito si stava allontanando dalla ragazza, e Sabina se ne accorse dal tempo che trascorreva a casa, dalle sue improvvisate. Reagiva ai regali e ai fiori con una delusione infinita, cercando di innescare screzi, persino una lite, pur di risvegliare in lui qualche tipo di mancanza. Sabina capì che era tutto perduto quando il marito, tornando da una delle visite clandestine che lei conosceva così bene, non aveva addosso neppure un graffio accidentale. Constanza aveva lasciato l’appartamento e Sabina lo capì fino in fondo solo all’alba, dopo aver cercato per tutta la notte un succhiotto, anche solo una macchietta d’addio, piccola come quella che aveva trovato sul collo. Si era alzata ed era andata alla finestra, capendo di essere di nuovo sola. Guardava ormai senza curiosità quel corpo slavato che dormiva sul letto, e che più tardi le avrebbe chiesto un caffè con un tono perentorio e sarebbe andato a lavorare senza immaginare che, la mattina stessa, Sabina avrebbe fatto la valigia per andarsene.

© Guadalupe Nettel

Traduzione di Federica Niola

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