In cerca di Mercè Rodoreda: una nota di lettura di Sandra Cisneros

In occasione dei quarant’anni dalla scomparsa Mercè Rodoreda, pubblichiamo la nota di lettura di Sandra Cisneros a La Piazza del Diamante apparsa in apertura della prima edizione del romanzo.

 

Non ci sono camelie in via delle Camelie. Forse una volta c’erano, poco o tanto tempo fa, ma non quando ci sono stata io la primavera scorsa. Mercè Rodoreda, nel prologo a uno dei suoi romanzi, scrive: Le strade sono sempre state fonte di ispirazione per me. Ed è per le strade di Barcellona che la vado a cercare.

Un critico francese ha detto di lei: “Si ha la sensazione che questa piccola lavoratrice di Barcellona parli a nome della speranza, della libertà e del coraggio di tutto il mondo. E che abbia appena pubblicato uno dei libri più universalmente rilevanti che l’amore – e lasciateci finalmente pronunciare questa parola – abbia potuto scrivere.” Si riferiva a La piazza del Diamante, un romanzo di cui mi parlò per la prima volta un parcheggiatore texano.

«Conosce Mercè Rodoreda?» mi chiese, «García Márquez la considera una delle più grandi scrittrici del secolo». Una raccomandazione di García Márquez e un’altra di un parcheggiatore. Non potevano sbagliarsi entrambi.

Il parcheggiatore scarabocchiò il nome “Rodoreda” su una ricevuta, un anno dopo comprai il libro e lo lessi dall’inizio alla fine, tutto in un pomeriggio. Una volta finito mi sentivo stordita come Balboa quando scoprì l’immenso Pacifico. Chi è questa scrittrice, questa “piccola lavoratrice” arrivata con troppo ritardo nella mia vita, eppure appena in tempo. Quello che so di Mercè Rodoreda l’ho raccolto mettendo insieme introduzioni, prologhi, sinossi e quarte di copertina – pezzi e frammenti, di qua e di là, che mi raccontano fatti ma non mi dicono nulla. So che è nata il dieci ottobre (del 1909 secondo una fonte, del 1908 secondo un’altra), unica femmina – come me – di genitori iperprotettivi, ma a differenza mia lei era anche figlia unica.

A venticinque anni pubblica il suo primo romanzo. A trenta riceve un prestigioso premio letterario per il libro Aloma. Scrittrice prolifica negli anni precedenti la guerra civile spagnola, scrive romanzi e pubblica racconti in varie riviste letterarie importanti. Era sposata? Aveva bambini? Suo marito la lasciava libera di seguire la sua vita di letterata o le diceva “Mercè adesso basta, vieni subito a letto?” E quando andava a letto sperava forse che lui non ci fosse, per poterci andare con un libro? Io non lo so con certezza, ma me lo chiedo.

So che durante la guerra si rifugia per un po’ a Parigi, e poi a Ginevra. Alcuni dei suoi libri – La piazza del Diamante per esempio – li completa a Ginevra dove, a quanto dice il suo traduttore inglese David Rosenthal, tirava avanti come una superstite. Questo però cosa vuol dire esattamente? Puliva bagni e tendeva con cura le lenzuola, batteva a macchina tesi di dottorato, asciugava i baffi di latte dalla bocca di un bambino, ricamava stelle blu su lenzuola e federe? O lavorava in una pasticceria tutto il giorno come Colombetta, la protagonista de La piazza del Diamante, le dita stanche di allacciare fiocchi e nastri tutto il giorno. Non posso saperlo.

Per vent’anni lontana dalla sua lingua Mercè Rodoreda non scrive. O almeno non pubblica. So che durante quel periodo diceva di non poter sopportare neanche il pensiero della letteratura, che la faceva vomitare, e che mai era stata tanto lucida come allora, mentre moriva di fame. E mi vengono in mente i mesi in cui ho vissuto a Sarajevo senza l’inglese, o quell’anno nel Nord della California senza lo spagnolo – in entrambi i casi non ho scritto, perché non avevo il coraggio di riprodurre la mia vita su una pagina. Dormivo per ore sperando che i giorni scorressero via, la mia vita arida e svuotata come un guscio. Cosa fa una scrittrice senza scrivere per un anno? E per venti?

Ha poco più di cinquant’anni quando comincia a scrivere di nuovo, il suo capolavoro, La plaça del Diamant, la storia di una donna normale alla quale capita di sopravvivere agli anni straordinari di una guerra. Qualche anno dopo finisce El carrer de les Camelies. 1966. Ha cinquantotto anni.

Quando sono andata a Barcellona per la prima volta, nella primavera del 1983, lei stava per morire ma io non sapevo ancora nulla della sua esistenza. Solo dopo molti anni avrei incontrato quel parcheggiatore texano che per primo mi suggerì il suo nome.

Giravo per le strade di Barcellona senza neanche i soldi per mangiare. Passavo tutto il giorno a cercare i palazzi di Gaudí e, per risparmiare, andavo a piedi invece che prendere l’autobus. Una volta visti tutti i Gaudí che potevo, feci un biglietto per tornare in treno sul confine franco-italiano, dove stavo vivendo. Mi erano rimaste poche pesetas per comprare un pollo arrosto. Sul treno del ritorno divorai quel pennuto come una pazza.

Maggio 1992, la primavera prima delle Olimpiadi. È domenica. Sono a Barcellona di nuovo, questa volta a presentare i miei libri. Sto in un hotel sulle Ramblas. In questa occasione non ho bisogno di sopravvivere senza cibo. I miei pasti arrivano su vassoi lucenti, con tovaglioli ripiegati in triangoli inamidati e argenteria brillante e un cameriere che apre le braccia come un prestigiatore. «Voglio andare lì» dico, puntando Plaça de la Font Castellana sulla mappa, dove finisce o comincia via delle Camelie.
«Lì?» mi chiede il tassista. «Ma lì non c’è niente.»
«Non importa, è lì che voglio andare.»
Oltrepassiamo vetrine e viali alberati, palazzi dai quali si affacciano leggiadri balconi di ferro, giù fino a Gràcia, il quartiere delle storie di Mercè Rodoreda. Ma quando finalmente arriviamo a Plaça de la Font Castellana mi rendo conto che il tassista aveva ragione. Non c’è niente, solo una rotatoria rumorosa, un ingorgo di automobili e delle reti di metallo, e sotto il parco in costruzione.

È questa la Calle de las Camelias? Gli edifici sono brutte scatole, i muri di un grigio granuloso come un maglione di lana sporco. Su un angolo una targa conferma Carrer de les Camelies. Non sono rimasti molti giardini. A malapena uno. Li avranno distrutti tutti durante la guerra?

Schiacciata tra due orrendi palazzi c’è una casetta del tempo che fu, qualcosa di simile alla casa di mia nonna a Tepeyac – molti vasi di piante, un testardo cespuglio di rose, ma nessuna camelia. Sto in piedi fuori dal cancello, stringo gli occhi come qualcuno che cerca di ricordare qualcosa. Sono arrivata troppo tardi.
Quando non sopporto più il rumore di via delle Camelie, la puzza di automobili, autobus e camion, scendo per una strada laterale, procedendo a zigzag per vari isolati fino a Plaça del Diamant.
Non è per niente come l’avevo immaginata. Spoglia come il palmo di una mano e dall’aspetto bizzarro come lo Zócalo di Città del Messico. Alti edifici sorreggono un piccolo fazzoletto di cielo. Luce – lattiginosa come dal fondo di un pozzo. Qui secondo voi un tempo c’erano alberi? L’aria rimbomba di bambini e motociclette, adolescenti impacciati si picchiano e poi si abbracciano, studentesse sull’orlo di brillanti catastrofi.
In un angolo della piazza, quasi impossibile da notare, scura e sbiadita come i tristi edifici color bronzo, la scultura di una donna con alcune colombe che prendono il volo – Mercè Rodoreda, o forse Colombetta. Qualcuno ha disegnato un pene nella parte bassa del busto. Di chi era figlio il ragazzino che l’ha fatto? Un cane ha lasciato tre piccole cacche sul piedistallo. Due bambini corrono attorno alla scultura, elettrizzati e ringhiando come tigri, e io rivivo la gioia d’essere rincorsa, da piccola, attorno alla statua di qualcuno ormai arrugginito – Cristoforo Colombo?
Ho con me una macchina fotografica ma sono troppo timida per fare una foto. Scelgo una panchina, accanto a una nonna che canta e culla un bambino dentro un passeggino. Quando non voglio che la gente mi noti comincio a scrivere, farlo mi rende invisibile.

Querido agridulce amargura de mis amores,

Ho camminato per il Carrer de les Camelies cercando Mercè Rodoreda. Eccomi nella famosa Plaza del Diamante gremita di bambini e motociclette e adolescenti e abuelitas che cantano in una lingua che non capisco. E la partita a pallone dei ragazzi comincia proprio adesso. Una flotta di madri naviga velocemente attraverso la piazza, coi bambini appoggiati sui larghi fianchi. Una ragazza con le gambe lunghe e una macchina fotografica urla «Urial» a Urial, che non si girerà per essere fotografato. Dal passeggino un piccoletto mi guarda con l’aria da furbetto finché non è più in vista. Una mamma abbronzata, paffuta come una pesca, fa la brava sportiva e gioca al salto alla corda cinese con le figlie. Il pallone colpisce il mio quaderno e mi fa cadere la penna dalle mani. Uno col sorriso sghembo, con i denti troppo grandi per la bocca che ha, arriva riportandomi la penna e un timido perdón.

Tutti, grandi e piccoli, sono fuori casa, esiliati o scappati via dagli appartamenti minuscoli del non ce la faccio più. Tutta Barcellona qui, a ogni età, a nascondersi o a pensare o a spingere un trattore di plastica, a baciare o a essere baciata dove la madre non la può vedere. Penso al parco vicino a casa di mia madre a Chicago, e a lei che non può andarci, spaventata dagli spacciatori. Penso alle rivolte di Los Angeles di qualche settimana fa. Agli abitanti di Barcellona che sono padroni delle proprie strade, a come passeggiano senza paura nei loro quartieri, nella loro piazza, nella loro città.

Sono venuta in cerca di Mercè Rodoreda, e qualche parte di lei è qui, qualche altra non lo è….
Cosa ti attrae di lei? Mi chiede un giornalista catalano. Io vado a tentoni, come uno dei suoi personaggi, maldestri con le parole come un carpentiere che debba infilare un ago.

Mercè Rodoreda scrive di sentimenti, di personaggi così impietriti o sopraffatti dagli eventi da non avere nient’altro che le emozioni per comunicare. Io penso che si scriva perché non si hanno le parole e non perché si ha il dono del linguaggio. E forse perché si riconoscono abbastanza saggiamente i limiti della lingua.

È la precisione nel nominare l’innominabile che mi attrae di Mercè Rodoreda, questa donna, questa scrittrice, per niente piccola, esperta nell’ascolto di chi non parla, di chi è colmo di grandi emozioni ma è muto e non sa nominarle.

 

(Traduzione dall’inglese di Elisabetta Careri)

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