Un estratto de Il testimone
Pubblichiamo un estratto de Il testimone di Juan José Saer, in libreria in una nuova veste grafica e con la postfazione di Paolo Pecere. La traduzione è di Luisa Pranzetti.
Di quelle coste vuote mi restò soprattutto l’abbondanza del cielo. Più di una volta mi sono sentito minuscolo sotto quell’azzurro dilatato: sulla spiaggia gialla eravamo come formiche al centro di un deserto. E se ora che sono vecchio trascorro i miei giorni nelle città è perché in esse la vita è orizzontale, perché le città nascondono il cielo. Laggiù, invece, di notte dormivamo alle intemperie, quasi schiacciati dalle stelle. Era come se fossero a portata di mano ed erano grandi, innumerevoli, senza troppo nero tra l’una e l’altra, quasi crepitanti, e il cielo come la parte crivellata di un vulcano attivo che lasciava intravedere attraverso i suoi buchi l’incandescenza interna.
La mia condizione di orfano mi spinse verso i porti. L’odore del mare e della canapa umida, le vele lente e rigide che si allontanavano e si avvicinavano, le conversazioni dei vecchi marinai, profumo multiplo di spezie e cumuli di mercanzie, prostitute, alcool e capitani: tutto ciò mi cullò, fu la mia casa, mi educò e mi aiutò a crescere, occupando il posto, fin dove arriva la mia memoria, di un padre e di una madre. Galoppino di puttane e marinai, scaricatore, alloggiato a volte in casa di qualche parente, ma per lo più sui sacchi nei depositi, mi lasciai dietro, a poco a poco, l’infanzia, finché un giorno una delle puttane pagò i miei servizi con un accoppiamento gratuito – nel mio caso il primo – e un marinaio, al mio ritorno da una commissione, premiò la mia diligenza con un sorso d’alcool, e così mi feci, come si dice, uomo.
I porti ormai non mi bastavano, ebbi fame di alto mare. L’infanzia attribuisce alla propria ignoranza e goffaggine l’incomodità del mondo: le sembra che lontano, sulla sponda opposta dell’oceano e dell’esperienza, la frutta sia più saporita e più reale, il sole più giallo e più benefico, le parole e gli atti degli uomini più intellegibili, giusti e definiti. Entusiasmato da queste convinzioni – che erano anche conseguenza della miseria – mi diedi da fare per imbarcarmi come mozzo, senza preoccuparmi troppo dell’esatta destinazione che avrei scelto: l’importante era allontanarmi dal luogo in cui mi trovavo verso un qualche punto, fatto d’intensità e delizia, dell’orizzonte circolare.
A quei tempi, poiché da circa una ventina d’anni si era scoperto che potevano essere raggiunte a ponente, la moda erano le Indie. Da là le imbarcazioni tornavano cariche di spezie o malconce e logore, dopo aver vagato alla deriva attraverso mari sconosciuti; nei porti non si parlava d’altro e l’argomento, a volte, conferiva un’aria demenziale agli sguardi e alle conversazioni.
L’ignoto è un’astrazione; il noto un deserto; ma ciò che si conosce a metà, che si intravede appena, è il luogo perfetto in cui far oscillare desiderio e allucinazione.
Nella bocca dei marinai si mescolava ogni cosa: i cinesi, gli indios, un nuovo mondo, le pietre preziose, le spezie, l’oro, la cupidigia e la favola. Si parlava di città pavimentate d’oro, del paradiso in terra, di mostri marini che sorgevano improvvisi dall’acqua e che i marinai confondevano con le isole, fino al punto di sbarcare sul loro dorso e accamparsi nelle anfrattuosità della loro squamosa pelle di pietra. Io ascoltavo quelle voci con stupore e palpiti; credendomi, come ogni bambino, destinato a tutte le glorie e protetto da tutte le catastrofi. A ogni nuovo resoconto che ascoltavo, fosse esso felice o spaventoso, la voglia di imbarcarmi si faceva sempre più forte. Finalmente l’occasione si presentò: un capitano, pilota maggiore del regno, organizzava una spedizione alle Molucche e io ottenni che mi ingaggiassero.
Non fu difficile. Nei porti si parlava molto, ma quando arrivava il momento di imbarcarsi, quelli che si presentavano erano pochi. Più tardi avrei capito perché. Di fatto ottenni il posto di mozzo sulla nave ammiraglia, la principale delle tre che costituivano la spedizione, senza alcuna difficoltà. Quando mi offrii per l’ingaggio, si sarebbe detto che mi stavano aspettando; mi accolsero a braccia aperte, mi assicurarono che avremmo fatto un’eccellente traversata e che, dopo qualche mese, saremmo ritornati dalle Indie carichi di tesori. Il capitano in quel momento non era presente, era occupato a Corte e sarebbe arrivato il giorno della partenza. L’ufficiale addetto al reclutamento mi assegnò un letto insieme ai marinai e mi disse di presentarmi più tardi per ricevere istruzioni sul mio lavoro. Durante la settimana che precedette la partenza, scesi a terra quasi tutti i giorni per le commissioni che mi affidavano gli ufficiali e anche i marinai, senza mai attardarmi per strada o nelle taverne, dato che il lavoro di mozzo mi riempiva di orgoglio e volevo svolgerlo alla perfezione.
Finalmente arrivò il giorno della partenza. La sera prima era comparso il capitano con un discreto seguito e aveva ispezionato, con il suo secondo, fino all’ultimo angolo delle navi. Quando fummo in alto mare riunì marinai e ufficiali in coperta e ci rivolse una breve arringa esaltando la disciplina, il coraggio, l’amore verso Dio, il Re e il Lavoro. Era un uomo austero e distante, non rude, e di tanto in tanto lo vedevamo lavorare in coperta con lo stesso rigore dei marinai. A volte si fermava sul ponte, solo, con lo sguardo fisso sull’orizzonte vuoto. Sembrava non vedere né mare né cielo ma qualcosa dentro di sé, come un ricordo interminabile e lento. O forse il vuoto dell’orizzonte gli entrava dentro e lo lasciava lì, a lungo, senza batter ciglio, pietrificato sul ponte. Mi trattava con bontà distratta, come se uno dei due fosse assente. L’equipaggio lo rispettava ma non lo temeva. Sembrava che tutti conoscessero a memoria i suoi precetti rigidi che faceva applicare nei minimi dettagli, ma come se anche questi non lo riguardassero. Si sarebbe detto che esistevano due capitani: quello che trasmetteva con precisione matematica gli ordini, emanati senza dubbio dalla corona, e quello che guardava fisso un punto invisibile tra il mare e il cielo, senza batter ciglio, pietrificato sul ponte.
In quell’azzurro monotono, la traversata durò più di tre mesi. Pochi giorni dopo aver preso il largo ci addentrammo in un mare torrido. Fu lì che cominciai a percepire quel cielo illimitato che mai più si cancellerà dalla mia vita. Il mare lo duplicava.
Le navi, una dietro l’altra a distanza regolare, sembravano attraversare, lente, il vuoto di un’immensa sfera azzurrata che di notte diventava nera, crivellata in alto da punti luminosi. Non si vedeva un solo pesce, un solo uccello, una sola nube. L’intero mondo conosciuto poggiava sui nostri ricordi. Noi eravamo i suoi unici garanti in quel contesto liscio e uniforme, di colore azzurro. Il sole testimoniava, giorno dopo giorno, una certa regolare diversità, rosso all’orizzonte, incandescente e giallo allo zenit. Ma questa realtà era poca cosa.
Dopo qualche settimana ci assalì il delirio: la nostra sola convinzione e i nostri meri ricordi non erano un fondamento sufficiente. Mare e cielo andavano perdendo nome e senso. Quanto più rugosi erano le cime e il legname dentro le imbarcazioni, più aspre le vele, più spessi i corpi che si muovevano in coperta, tanto più problematica diventava la loro presenza. A volte si sarebbe detto che non avanzassimo. Le tre imbarcazioni, in fila irregolare, distanziate l’una dall’altra, erano come incollate nello spazio azzurro. I colori cambiavano quando il sole appariva all’orizzonte dietro le nostre spalle e si immergeva all’orizzonte oltre le prue immobili. Il capitano contemplava dal ponte, come stregato, quei mutamenti di colore. A volte avremmo desiderato veder emergere uno di quei mostri marini che riempivano le conversazioni nei porti. Ma non comparve alcun mostro.
In quella situazione già così strana, avversità supplementari aspettano il mozzo. L’assenza di donne accentua, a poco a poco, l’ambiguità delle sue forme giovanili, prodotto della sua virilità incompleta. Ciò che ai marinai, onesti padri di famiglia, sembra ripugnante nei porti, durante la traversata diventa sempre più normale, allo stesso modo di chi adora la proprietà privata ma, a mano a mano che la fame corrode i suoi princìpi, nella sua immaginazione non vede altro che il pollo del vicino spennato e arrostito. È bene sottolineare che la delicatezza non era la qualità migliore di quei marinai. Più di una volta la loro unica dichiarazione d’amore fu di avvicinarmi un coltello alla gola. Bisognava scegliere, senza altra possibilità, tra l’onore e la vita. Due o tre volte fui sul punto di lamentarmi col capitano, ma le minacce ferme dei miei pretendenti mi dissuasero. Alla fine, optai per il consenso e per l’intrigo, cercando la protezione dei più forti per trarre profitto dalla situazione. Il commercio con le donne del porto, tutto sommato, risultò utile. Con intuizione infantile mi ero reso conto, osservandole, che per loro vendersi non era che un mezzo per sopravvivere e che nel loro modo di agire l’onore era eclissato dalla strategia. Del resto anche le questioni di gusto personale erano superflue. Il vizio fondamentale degli esseri umani è voler restare, a qualunque prezzo, vivi e in buona salute, è voler concretizzare a ogni costo le immagini della speranza. Io volevo raggiungere quelle regioni paradisiache: passai, pertanto, di mano in mano, e devo dire che, grazie alla mia ambiguità di imberbe, in certe occasioni il rapporto con quei marinai, che erano anche un po’ dei padri per l’orfano che ero io, mi riservò qualche piacere: tale era la situazione quando avvistammo terra.
L’allegria fu grande; sollevati, arrivavamo presso sponde sconosciute che testimoniavano la diversità. Quelle spiagge gialle, circondate da palme, deserte nella luce zenitale, ci aiutavano a dimenticare la traversata lunga, monotona, senza incidenti, dalla quale uscivamo come da un tempo di pazzia. Con le nostre grida di entusiasmo, davamo il benvenuto alla contingenza. Passavamo dall’uniformità alla molteplicità dell’accadere. La superficie liscia del mare si trasformava davanti ai nostri occhi in sabbia arida, in alberi che davano inizio, dalla riva, a una prospettiva accidentata di burroni, di colline, di selve; c’erano uccelli, bestie, ogni varietà di minerali, di vegetali e di animali della terra esuberante e generosa. Avevamo di fronte un suolo fermo sul quale ci sembrava possibile piantare il nostro delirio. Il capitano, che ci osservava dal ponte, non partecipava al nostro entusiasmo, era come se non lo riguardasse. Contemplava, insieme, senza vedere né l’uno né gli altri, il paesaggio e i marinai, con un sorriso distante e assorto abbozzato non sulle labbra ma nello sguardo. Sul volto invaso dalla barba, le rughe intorno agli occhi si facevano più profonde a causa di quella sua espressione. Via via che ci avvicinavamo alla riva, l’euforia dell’equipaggio aumentava. Conclusione di pene e incertezze, quella regione mansueta e terrena sembrava benevola e, soprattutto, reale. Il capitano ordinò di gettare l’ancora e di predisporre le imbarcazioni per dirigersi a terra. Molti marinai – e anche qualche ufficiale – non aspettarono nemmeno che fossero pronte: si buttarono in mare dal ponte e guadagnarono a nuoto la riva. Giunsero prima delle imbarcazioni. Mentre ci avvicinavamo gesticolavano, saltando sulla sabbia, agitando le braccia, grondanti acqua, seminudi e contenti: era terraferma.
Appena giunti, ci disperdemmo come animali in fuga. Alcuni cominciarono a correre senza una meta, in linea retta e in tutte le direzioni; altri in cerchio, in uno spazio limitato; altri saltavano fermi sul posto. Un gruppo accese un immenso fuoco e restò a contemplare le fiamme che impallidivano nella luce di mezzogiorno. Due vecchi, sotto un albero, si burlavano di un uccello dal verso stridulo che, saltando di ramo in ramo, non si decideva a spiccare il volo. In fondo, lontano dalla spiaggia, dove iniziava un’altura, diversi uomini inseguivano un gallinaccio dalle piume multicolori.
Alcuni si arrampicavano sugli alberi, altri raschiavano il terreno. Uno, in piedi sulla riva, orinava nell’acqua. Alcuni, incomprensibilmente, avevano preferito starsene a bordo e ci contemplavano da lontano appoggiati al parapetto. Al tramonto, eravamo tutti riuniti sulla spiaggia, intorno al fuoco sulla cui brace cuocevano i frutti della caccia e della pesca. Quando giunse la notte, le fiamme illuminarono le facce barbute e sudate dei marinai che sedevano in circolo. Uno, un vecchio, si mise a cantare. Gli altri lo accompagnavano battendo le mani. Poi, a poco a poco, ci vinse la stanchezza, mentre il fuoco si consumava. C’era chi, ancora seduto, sonnecchiava con la testa ciondolante, chi si sdraiava di fianco sulla sabbia tiepida, chi cercava un punto riparato dalla guazza, ai piedi di un’altura o sotto un albero. Dieci o dodici presero un’imbarcazione e se ne ritornarono a dormire sulle navi. Approfittando dell’oscurità, e tanto per scherzare, un marinaio si concesse un lungo peto che fu ricevuto con uno scroscio di risa sguaiate. Io mi distesi supino e mi misi a contemplare le stelle. Poiché non si vedeva la luna, il cielo ne era pieno; ce n’erano di gialle, rossicce, verdi: scintillavano nitide e tremule o restavano fisse, o sembravano rifulgere. Di tanto in tanto qualcuna scivolava nell’oscurità tracciando una curva luminosa. Era come se fossero a portata di mano. Avevo sentito un ufficiale dire che ciascuna di esse era un mondo abitato, come il nostro; che la terra era rotonda e anch’essa, come una stella, galleggiava nello spazio. Fremetti pensando alla nostra grandezza reale, se quelle stelle abitate da uomini come noi non sembravano, viste dalla spiaggia, che piccoli punti luminosi.
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