Un estratto di “Giorni di battaglia” di Paco Ignacio Taibo II
Pubblichiamo un assaggio di Giorni di battaglia di Paco Ignacio Taibo II, romanzo della serie “Le indagini di Belascoarán”.
La traduzione è di Roberta Bovaia
1
«Occhio, capo, che me li calpesta» disse all’idraulico con cui divideva l’ufficio.
«Allora perché li mette per terra?»
«Per vederli tutti, cazzo.»
«Tutti insieme?»
«Fanculo.»
«Sua sorella» vaticinò imperterrito Gilberto l’idraulico, poi si sistemò da una parte il berretto alla Sherwin Williams e uscì.
Héctor attese il tonfo della porta e si accese una sigaretta. La fumò lentamente, con calma, come se l’insulto gli avesse fornito la dose di pace necessaria a riportare le idee sui loro binari.
Fuori faceva freddo, più freddo del solito. Negli ultimi minuti, i rumori del traffico si erano intensificati: il torrente della maledetta baraonda di fumo e di clacson, di marmitte che strepitavano e di semafori rossi. La sinfonia delle sette di sera. Héctor si diresse alla finestra e la chiuse, poi tornò a contemplare i giornali sparsi ordinatamente sul pavimento. Le giovanili letture di Hemingway lo avevano convinto che si finisce invariabilmente per condividere qualcosa con il nemico, che nella caccia avviene un processo per il quale l’uomo e la preda a poco a poco si identificano, mescolando i loro sudori, cercando una stessa pelle, un processo che culmina con la morte. Per questo non si stancava di cercare nei giornali: un’immagine, un’idea, una pista, una forma. Un nemico tangibile. E invece il fantasma si palesava ogni volta più sfumato, più simile a un sogno, all’incontro casuale. I luoghi comuni diventavano un assedio che Héctor rifuggiva ed evitava con la pazienza del cavaliere medievale consacrato e invincibile, circondato da saraceni intenzionati a suonargliele.
Il frastuono si accumulava dietro i vetri e svaniva nella notte. Alla sigaretta ne seguirono altre quattro.
La cenere si spargeva quasi invisibile, formando un sentiero che seguiva fedelmente i passi di Héctor.
L’idea iniziale gli era sfuggita, e lui si era messo a sbirciare altre storie finite per caso nei ritagli: costume e società, tamburini dei cinema, discorsi del governatore del Nuevo León.
«Dopo tutto, pura cronaca nera» mormorò Héctor sorridendo della distrazione.
Un paese dove la cronaca nera era debordata dal suo luogo di origine alle pagine di costume, si era nascosta nella sezione spettacoli, nelle pagine sportive.
Un paese in cui sono cronaca nera le dichiarazioni di un deputato, cronaca nera le frasi del ministro dell’Interno, cronaca nera le nozze Lanzagorreta-Suárez Reza, cronaca nera i commenti dell’allenatore del Cruz Azul. E cronaca nera persino gli annunci personali, pensò sorridendo.
«In un paese così…» pensò a voce alta e spense l’ultimo mozzicone. Cercò nel portafoglio un biglietto del metrò con cui pulirsi le unghie mentre passava in rassegna i giornali per l’ultima volta.
Si sistemò la pistola alla cintola per evitare che il mirino gli punzecchiasse i testicoli e uscì lentamente nel freddo.
In ascensore si stropicciò gli occhi e si sgranchì guardando di sottecchi una segretaria che, prudentemente, si era sistemata nell’angolo opposto.
Il freddo della strada lo spinse di nuovo verso il binario delle piccole idee inutili. Si specchiò in una vetrina. Continuò a camminare, infastidito dalla musica natalizia che proveniva da un negozio di dischi.
Mentre imboccava l’ingresso del metrò Pino Suárez, si girò inquieto, come se qualcuno lo seguisse.
Immerso in una fiumana di gente, fu sospinto dal metrò (stazione e cartelli, entrate e uscite, coincidenze, un caffè preso di corsa a Balderas) fino all’uscita Tacubaya Sur della stazione di Chapultepec. Il freddo lo colpì di nuovo in piena faccia ed Héctor sentì che gli ingranaggi riprendevano a funzionare dopo la pausa.
Camminò verso casa facendo piccole deviazioni per comprare il pane alla Queretana e latte, prosciutto e uova in un negozietto d’alimentari che aveva come sola ragione sociale visibile un’insegna dell’Orange Crush. Una donna sull’ottantina lo fermò a pochi passi da casa per chiedergli l’elemosina. Portava in spalla un sacchetto pieno di pane duro e gli raccontò una lunga storia per spiegargli che doveva operarsi agli occhi. Héctor le sorrise e le consegnò tutto il denaro che aveva, cioè una miseria. Proseguì verso il suo palazzo ripensando alla migliore spiegazione sulla loro separazione fornita dalla ex moglie: “Il giorno in cui saprai perché mi ami, non devi fare altro che venire a dirmelo.” Mentre abbozzava un sorriso mezzo congelato, pensò che non sarebbe riuscito a convincerla dicendole che aveva ancora voglia di andare a letto con lei. Era la strada che aveva scelto. Salì lentamente le scale ed entrò in casa. Quando accese la luce, gli occhi cercarono il calendario per constatare che mancavano quindici giorni al suo compleanno.
Trentuno, no? si chiese. Passò nella stanza da letto badando a non calpestare i giornali stesi con cura sul pavimento. Si buttò sul letto, bevve il latte direttamente dalla bottiglia e mangiò un paio di panini al prosciutto, poi si spazzolò le briciole, accese la radio e gironzolò attorno alla libreria. Dopo averci pensato un po’ prese I conquistatori di Malraux, sprofondò sotto la coperta, lesse un paio d’ore e si addormentò. Nel sonno più profondo sentì che il treno ricominciava a muoversi lungo i binari giusti. Si risvegliò a metà, si snebbiò per un momento e si spogliò. Il sonno lo sorprese di nuovo mentre si spostava nel lato del letto in cui le lenzuola erano ancora gelide.
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